mercoledì 27 marzo 2013

Ho voglia di te


Sì, lo so… scompaio e ritorno dall’oblio citando Moccia. Lecito pensare “ma perché non è rimasta dov’è stata fino adesso?”. Però, giuro, non si tratta di un’improvvisa irrequietezza tardo adolescenziale, né di sbalzi ormonali in vista della stagione degli accoppiamenti. Non mi riferisco ad un uomo, anzi, nemmeno ad un essere umano. Quanto ad un cane.



Ebbene, lo ammetto, un po’ (tanti) di turbamenti ed irrequietezze questo avvento così recalcitrante di primavera me li sta dando. Questioni lavorative, scompigli interiori, riflessioni amorose, tutto si mescola insieme formando una mistura che sobbolle in un calderone a rischio esplosione. Sarà per questo il mio prolungato silenzio e anche questo irrefrenabile desiderio: avere un cane.

Sono sempre stata circondata di animali – purtroppo non solo a quattro zampe – cani, gatti, miei, di amici, vagabondi, compagni di una vita o solo di qualche momento, botoli ignobili, con pedigree o trovati nella spazzatura, ma con tutti ho sempre condiviso lo stesso amore viscerale, fatto di un rapporto fisico, di baci, di parole, di comportamenti umani a tutti gli effetti perché che “gli animali non capiscono” è una fandonia inventata da chi non mai provato a vederli come altro che graziosi peluche. Ad amarli, coccolarli, crescerli, come fossero figli, poi fratelli e infine anziani genitori. Perchè un cane (o un gatto) ti fa sperimentare, in forma condensata, ogni tipo di rapporto affettivo che la vita possa offrire. E, a differenza degli umani, non ti delude, ti ama incondizionatamente, ti ridà moltiplicato per mille qualunque cosa di buono tu faccia per lui. E non ti abbandonerà mai. Fino al suo ultimo respiro.

E in questo momento della mia vita, dopo qualche anno che vivo da sola e che il mio cane e il mio gatto sono rimasti con i miei genitori, avrei proprio voglia di un fetido cagnaccio che la mattina mi viene a svegliare con le sue bave, che mi guarda come fosse digiuno da un mese non appena infilo anche solo una caramella in bocca, che mi obbliga a portarlo a spasso e mi resta appiccicato come fossi la sua ragione di vita. Uno di quei cagnacci brutti, ma talmente brutti che diventano belli nel loro orrore. Ok, lo dico, mi piacerebbe un bouledogue francese. Più un pipistrello che un cane. Una bestia così orrenda e sgraziata che sei triste e lo guardi non può che metterti di buon umore. Un cane freak. Che russa come un locomotore non appena chiude gli occhi. Che (come me) se cammina 10 minuti si siede e non si muove più. Un cane da divano. Da baci tra le pieghe della pellacchia e sotto le manine e i piedini da porcello.



Esistono però due problemi, uno di ordine pratico ed uno di ordine etico. Il primo: sarò in grado di gestire, completamente da sola, un cane? Stare dietro alle sue esigenze che non sono solo pappa, acqua e passeggiatina ma educarlo, passare del tempo con lui, renderlo felice e soprattutto renderlo un cane non un pupazzo. E’ un timore fondato. Ho sempre avuto animali ma non li ho mai gestiti da sola. Non ho mai dovuto rinunciare alle ferie per loro, correre a casa per la pipì o i croccantini, organizzare la mia vita in base alle esigenze di un altro essere vivente. C’era sempre qualcun altro a farlo per me. E con un cane non esistono ripensamenti, almeno per me. Il cane è come un figlio. Per la vita. Non è che fai un figlio o lo adotti, poi capisci che ti crea dei problemi e lo molli a qualcuno. No. Il cane è tuo. Uno dei pochi rapporti davvero “finché morte non vi separi”.

Il secondo problema è tutto mio, forse. Un bouledogue è un cane di razza e in quanto tale, generalmente, da acquistare. Ma questo non è concepibile per me! Tornando al discorso di cui sopra, i figli si comprano? Esistono vite umane in vendita? E perché allora dovrei comprare un cane? L’anima e l’amore di un essere vivente non possono avere un valore economico. Io voglio un cane da amare non un oggetto da mettere in mostra nelle esposizioni canine. Non mi importa se ha la zampa sbilenca, il garretto più alto o più basso degli standard accettati, le orecchie perfette o altro.

Osserverete, giustamente, che posso andare al canile. Verissimo. Ma qui subentrano tre ordini di questioni.

  • Se metto piede in un canile (quale peraltro?) esco in lacrime e con 200 cani, non uno. Risultato, mi cacciano dal condominio e torniamo tutti al canile a vivere. Anche io. 
  • Io vorrei un cane - pipistrello. Un bouledogue. Un cane – mostro che mi faccia ridere ogni volta che lo guardo.
  • Infine, una domanda a cui io non ho mai trovato (o forse non ho mai avuto il coraggio di trovare) una risposta. Che fine fanno i cani di razza, magari senza pedigree, che superati i 3/4 mesi di età non vengono venduti? I cuccioli imperfetti? Quelli importati, come fossero patate in una cassa, ammucchiati dentro un bagagliaio da qualche ignobile paese slavo? Io vorrei uno di quei botoli, una pallina spaventata da curare e proteggere.




Lo so, vi sto dando il diabete con questo post… chi ama gli animali mi adorerà, chi non li ama vomiterà. Però, anche in questo caso, anzi soprattutto in questo caso, fate lo sforzo di leggere. Di arrivare fino qui. E provate a cercare di capire quale mondo immenso si apra dietro gli occhi di una creatura per cui sarete voi, tutto il suo mondo.

Se riesco, torno prima di Pasqua. Dopo sarò anche io un uovo e mi toccherà aggiornarvi sul procedere della mia Remise en (S)Forme.

P.S. Chiaramente, chiunque sapesse di un pipistrello che cerca casa… fatemi sapere! Ho già in mente nomi deliziosi per il fortunato/a!

Vi bacio

SS

giovedì 7 marzo 2013

Sono una donna, non sono una santa


Eccomi qui! Non sono sparita nelle ultime due settimane, soltanto, entrata in una fase di stanchezza da “inizio primavera”, in cui tutto mi costava fatica. Anche scrivere. Ma ora sono tornata, viva, vegeta e più logorroica che mai!

Domani è l’8 marzo e, oltre ad essere il compleanno di mia zia, è anche la Festa della Donna. Ogni anno questa data mi fa venire i brividi. Per quello che è diventata. Vi racconto un aneddoto. Quando ero una giovane matricola tutti i venerdì sera, cascasse il mondo, andavo a ballare con i miei amici in una nota discoteca milanese molto in voga tra gli universitari di inizio millennio, Le Banque. Mi divertivo come una matta, soprattutto quando in fase pre chiusura partivano i revival. Ma bando alla malinconia! Un anno, credo fosse il 2001, la Festa della Donna cadde di venerdì. Io ero lì, come tutte le settimane, con i miei amici. Ma quella sera vedevo una fauna diversa. Una torma di tardone si aggirava inquieta nel locale. Ingenuamente, pensai fossero i soliti gruppi di amiche che aspettano l’8 di marzo per scappare dalla routine coniugale e fare un po’ di caciara fra donne. Mal me ne incolse invece! Nel bel mezzo della serata, la musica si interrompe, la pista si svuota e le luci vengono puntate al centro. E a quel punto, compare lui: lo spogliarellista. Un abominevole palestrato sui 35 anni, capelli plastificati dal gel in una acconciatura alla Magic Silvan, divisa da Man in Black che, al ritmo di Hot Stuff e simili amenità, è stata sostituita dall’orrore che il mio cervello temeva ma rifiutava di accettare: il muscolo gommoso marrone di lucido e le pudenda coperte da un perizoma maculato. Io ero annichilita contro una colonna. Non tanto per il penoso spettacolo di un poveretto che si arrabattava in qualche maniera per campare, quanto per le succitate signore. In preda ai più turpi deliqui e tardivi sconvolgimenti ormonali, si gettavano addosso all’unto nella speranza di palpeggiarlo, attirarne l’attenzione o di carpirne le grazie. Per la prima volta nella mia vita, mi sono vergognata di essere una donna. Ma non tanto per la pietosa manifestazione di furore uterino e di somma volgarità cui stavo, mio malgrado, assistendo ma perché nel comportamento di quelle arpie inferocite riconoscevo il medesimo atteggiamento che per secoli ci ha reso succubi degli uomini, vittime di una società che ci riteneva oggetti da usare e gettare via.

Purtroppo, molto spesso la Festa della Donna si riduce a questo. A femmine isteriche che inseguono un uomo. A una mimosa spennacchiata che qualche provolone ti fa trovare sulla scrivania, ritenendo di essere galante. A squallide battute su un giorno speciale da festeggiare con le amiche, innalzando falli finti come vessilli. Io non mi riconosco in questo. Non voglio. E vorrei non dover vedere nulla del genere. Né domani, né mai. Perché le donne non sono e non devono essere questo. 


L'8 marzo 1972 la manifestazione di Roma si concluse con una carica della polizia che manganellò e disperse le manifestanti. La loro colpa? Avere portato in piazza cartelli che mostravano scritte quali «Legalizzazione dell'aborto omosessuale», «Matrimonio = prostituzione legalizzata».



Rileggete la data. 1972. Io sono nata 9 anni dopo. Un battito di ciglia. La legge consentiva il divorzio da soli due anni anche se non sarebbe stato formalmente riconosciuto fino al referendum del ’74 e l’aborto era illegale e lo sarebbe stato per ancora sei anni. Non so voi, ma quando sento parlare di divorzio o di interruzione di gravidanza, per quanto si tratti di scelte difficili e dolorose, sono abituata a considerarle diritti basilari, come andare a scuola o essere curata in caso di malattia. Per le nostre madri non era così. Non sto parlando di personaggi di cui si legge nei libri di storia, collocate in uno spazio – tempo indefinito, ma delle donne a noi più vicine. Le nostre nonne non potevano neppure votare. Che fortuna abbiamo noi? Quale grande privilegio abbiamo avuto? Vi immaginate cosa significhi vivere in un mondo dove se vuoi porre fine ad un matrimonio devi pregare Dio che tuo marito sia una persona civile e ti consenta di andartene senza ammazzarti? Vivere in un mondo dove se eri tu a tradire tuo marito e lui ti uccideva per questo, avrebbe avuto una pena lieve perché fino al 1981 la legge italiana prevedeva l’esistenza del delitto d’onore? Vivere in un mondo in cui, se per qualche ragione, non volevi o non potevi avere un figlio, dovevi scegliere se morire sotto i ferri di una mammana o essere perseguita dalla giustizia? Significa vivere nella paura e nella sudditanza. Nessuno si augura di dover prendere simili decisioni nella vita ma abbiamo il diritto di scegliere. Dobbiamo averlo. Siamo esseri umani, prima che donne o uomini. E abbiamo il dovere di comportarci come tali.

Tantissimo resta ancora da fare perché le donne siano davvero libere di poter vivere la propria vita, di potersi sentire sicure in ogni momento, anche per strada di notte, di poter avere i diritti che spettano ad una persona in quanto tale, uomo o donna che sia. Ma domani mi piacerebbe che fosse il giorno in cui celebriamo le donne (e gli uomini) che hanno combattuto perché tutto quello che oggi diamo per scontato diventasse una realtà, che ci hanno regalato un presente, che anche se difficile, è comunque nostro, a cui dobbiamo tutto e in memoria dei quali non dobbiamo mai smettere di lottare per la nostra dignità. A partire dalle piccole cose.

Auguri, amiche. Ve li faccio di cuore e spero che anche in quelli che farete e riceverete ci sia la speranza di un futuro ancora migliore per i nostri figli. Che deve partire da noi e dall’eredità che abbiamo ricevuto.



Vi bacio

SS

P.S. In queste due settimane di latitanza, il mio blog ha compiuto il suo primo mese. Grazie a tutti voi che avete letto, commentato, mi avete incoraggiato a scrivere. In ogni modo possibile. Avessi anche tre lettori (non credo siate molti di più) per me siete il mio pubblico, il bene più prezioso di una “parolaia” come me.